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Juan Sebasti

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Juan Sebasti

Il bandolero stanco s'è stancato di cavalcare. Duole la caviglia destra, duole altrettanto smettere. Ma la Brujita lo ha già deciso: non volerà più. Nessun ripensamento, ancora due partite col suo Estudiantes e poi basta. Juan Sebastián Verón saluta il calcio giocato, stavolta per davvero: a 37 anni suonati un
volo senza ritorno. Un po' come quel destro col Perugia, mezzo esterno,
mezzo collo. Un destro all'incrocio diamante di rara bellezza, senza
ritorno perché nessuno, anche provandoci un milione di volte, riuscirà a
metterla là, perfetta, così, come fece lui. Giocava con la fascia
bianca, lui, se la metteva sotto il ginocchio destro; si credeva per
qualche guaio pregresso, invece era scaramanzia.

Aveva poco più di vent'anni quando prese la strada inversa di migliaia di
italiani del passato e sbarcò nella danza chiassosa dei vicoli di
Genova. Ghigna da emigrante, qualche tatuaggio, l'orecchino al lobo
sinistro. E la stoffa, l'arroganza buona di chi la sa lunga. La
capovolta ambiguità di Orione gli stava stretta, la maglia blucerchiata
numero 20 gli calzò subito a pennello. La scelse ad ogni costo, malgrado
Maradona – Diego Armando, sì, proprio lui – le tentò tutte per
trattenerlo al Boca. Ci aveva visto giusto, el Pibe. Ci videro altrettanto giusto a Campetto 2.

Mai visto galoppare; caracollava, il bandolero,
vedeva tutto, prevedeva tutto. Non ci volle molto a comprendere di aver
scovato un campione, un predestinato, nato sotto il segno dei pesci e
del papà Ramón. Senso tattico e precisione, facilità di lancio e di
tiro. Con Cerezo aveva tanto in comune. Ma era Verón.
Quello che la Sud invitava a tirare la bomba, che chiedeva la maglia al
suo capitano dopo l'orgasmica rimonta nella San Siro nerazzurra, che si
toglieva la sua sventolandola sulla bandierina dopo un lob da urlo a
Turci.

Quello che i sampdoriani hanno avuto l'onore e la buonasorte d'incontrare. Hasta siempre, JSV, è stato bello vederti giocare per noi.

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